IL PENSIERO DELL’EX ASSESSORE KOSIC SULLA LEGGE SUL FINE VITA.


Riceviamo e pubblichiamo sul nostro sito questo contributo dell’ex Assessore alla salute, prof. Vladimir Kosic in merito alla proposta di legge sul fine vita.

Non sono neanche finiti gli echi causati dagli scontri sulle unioni civili e “organi umani in affitto” che, per sparigliare ulteriormente le carte, ne sta per cominciare un altro. All’assenza di “dibattito politico” di un governo caratterizzato dall’improvvisazione e dal trasformismo, sia che si parli di riforme a livello regionale, di spending review a livello nazionale, di ministero europeo del tesoro a Bruxelles, stiamo per assistere, nuovamente (premeditatamente?) ad uno scontro emotivamente strumentalizzabile. “La battaglia sul fine vita dal Friuli al Parlamento” titola il MV del 6 c.m. in prima pagina. Che su entrambe le questioni, unioni civili e legge sul fine vita, il nostro Paese accusi un colpevole ritardo, concordo pienamente. Ciò su cui decisamente dissento è la scelta politica di coinvolgere il Parlamento nazionale in prossimità di elezioni amministrative che poco, o nulla, “c’azzeccano” con questi temi.

Da troppi anni il nostro Paese, la nostra Regione, i nostri Comuni, da Trieste a Roma (solo per rammentare, tra l’altro, che siamo nell’anno del Giubileo di Papa Francesco e non ce lo possiamo ricordare solo quando si parla dell’accoglienza dei profughi) avrebbero bisogno di consenso, unità, coesione e pensare che la Chiesa rimarrà silenziosa su queste materie significa ignorare che mentre la Francia (pur sostenendo il diritto alla “libertà”), impedisce alla Chiesa di esprimersi  su temi quali aborto e famiglia, in Italia, oltre all’art. 7 della nostra Costituzione,  il Concordato (ma non il Trattato) fu rivisto, dopo lunghissime e difficili trattative, nel 1984 (governo Craxi), fondamentalmente per rimuovere la clausola riguardante la religione di Stato della Chiesa cattolica in Italia. Nulla di più! Anzi. Il nuovo Concordato, stabilì che il clero cattolico venisse finanziato da una frazione del gettito totale IRPEF, attraverso il meccanismo noto come otto per mille e che la nomina dei vescovi non richiedesse più l’approvazione del governo italiano.

Dato che, mio malgrado, so che nei prossimi mesi di eutanasia si parlerà l’inerziale ottimismo della volontà che mi rimane mi spinge a non rassegnarmi solo di queste inquietanti constatazioni perché anche la più precisa delle analisi non avrebbe di per sé senso sufficiente se non fosse allo stesso tempo finalizzata almeno ad un’ipotesi di riflessione.

Nell’ordine, quindi, e cominciando dai termini errati che sono stati e continuano ad essere utilizzati, l’espressione “testamento biologico” andrebbe abolita perché il testamento è relativo ai beni materiali, ed è evidente che chi ha proposto questa locuzione non l’ha fatto a caso, ma è partito da un’antropologia che “cosifica” il corpo (K. Marx, parla di “reificazione dell’uomo nelle merci”, I libro de Il Capitale).

Per ciò che riguarda il merito, quando parliamo di DAT (dichiarazione anticipate di trattamento) vengono esposte scelte completamente decontestualizzate rispetto al momento in cui le si dovrebbe applicare. La distanza psicologica, clinica, ed anche delle conoscenze mediche, rende le DAT concettualmente inaccettabili. Il “sentire comune”, però, nega questa riflessione, ed enfatizza il diritto all’autodeterminazione.

La relazione medico/paziente è, a differenza delle DAT, attuale, reale sincrona all’atto terapeutico. Sicuramente il paziente, informato della malattia e della sua possibile/probabile evoluzione ha diritto ad esprimere ciò che desidera gli venga fatto, ma il discorso è diverso per come si intendono oggi le DAT, cioè proiettate verso la gestione di una malattia che ancora non c’è. (M. Corona: “Se mi dovesse venire un ictus sono già d’accordo con un amico che mi darà la pastiglia.”)

Chiunque, conoscendo a grandi linee l’evoluzione di una grave malattia, che ci coglie in flagrante, deve sempre avere il diritto di esprimere ciò che desidera che gli venga fatto in futuro, sia in termini di limitazione a certi interventi medici, sia in termini di desiderio che si faccia o meno sempre e tutto il possibile per prolungare l’esistenza. Tutti ricordiamo la lettera di Giulia Facchini, nipote del Cardinale Martini, che ci raccontò la scelta condivisa con lo zio della sedazione terminale. Se e quando dovessero comparire delle complicanze, dovrebbe essere doveroso tener conto di quanto da noi espresso. Meno si protrae l’agonia meglio è per tutti.

Ricordo che il caso Welby era iniziato perché lui stesso aveva espresso la sua contrarietà alla respirazione artificiale ma, durante un episodio di insufficienza respiratoria, non furono seguite le sue volontà. Sarebbe stato più corretto, secondo me, che i medici avessero seguito le indicazioni di Welby in quel momento.

E’ comprensibile e normale che una “persona sana” pensi, immagini, definisca la qualità della “vita” delle “persone” anche sulla base di proiezioni illegittime delle proprie paure rifiutando pregiudizialmente ogni male possibile. Ma chi potrebbe contemperare l’evenienza e l’accettazione anticipata di una malattia invalidante del proprio corpo e/o mente? E, se cosi dovesse essere, fino a che punto possiamo dire in anticipo quanto e come saremmo poi disposti a convivere con una malattia o trauma da cui non si guarisce? E chi può pre-dire che la concezione della qualità della vita che abbiamo oggi sarà valida anche domani dato il processo naturale e/o “scalognato” concatenato alla nostra esistenza per la quale la natura prevede sia l’invecchiamento che una fine non lieta? Ma perché spendere soldi pubblici per abbattere le barriere architettoniche, spendere per l’assistenza domiciliare, progettare giardini per le “persone” con il Parkinson o l’Alzheimer se il tutto si potrebbe risolvere con una… firma e una punturina?

Estendendo il ragionamento, se una DAT spiegasse dal punto di vista etico (come prevedono le pdl che verranno discusse in Parlamento a partire da questo mese) che per “la situazione in cui il paziente ha perduto la capacità di intendere e di volere” la soluzione estrema sia anche la più opportuna, perché non farlo per tutte le persone (attenzione che solo nella nostra regione sono una decina di migliaia) che non sono capaci di intendere e di volere in presenza di una legge giuridicamente/eticamente comprovata da una norma del nostro parlamento?

Penso, da 51 anni, che la sofferenza sia sostenibile se è ben curata, condivisa e se riusciamo a darle un senso. Nella nostra regione, più che nel resto del nostro Paese, le persone con una malattia cronica grave (100% di invalidità, cc. 45.000 persone) sono curate, ce ne facciamo carico assieme dall’ospedale alle case di riposo, è tutto ciò acquista un senso “laico” significativo e significante sia per chi è direttamente che indirettamente coinvolto. La nostra comunità se ne fa un vanto perché esprime un livello di benessere e di civiltà migliori.

Pensiamoci.”                                                                                                              Vladimir Kosic